Probabilmente – anzi sicuramente – non c’era bisogno di pedalare una Jeroboam 300 e una Maratona delle Dolomiti in 48 ore con la stessa bici per dire che ne basta una per fare un po’ tutto senza grossi problemi.
Non ce n’era bisogno anche perché durante l’anno, nel nostro piccolo, abbiamo portato le nostre Racemax più o meno ovunque e con diversi assetti, sempre dei risultati piuttosto apprezzabili. Da The Traka, in tutte le sue distanze, alla Granfondo Sportful Dolomiti Race. Siamo passati per un’altra Jeroboam nel Frattempo, un Veneto Trail e una Veneto Gravel, abbiamo pedalato il Tuscany Trail. E lontano dai riflettori ci siamo sparati qualche bel giro invernale, sia in strada che fuori. Ci hai mai deluso? No. Ci ha portato dove volevamo? Certo che si.
Comunque sia, questa cosa di “One bike is enough” è nata come idea qualche tempo fa ed è toccato a Fede mettersi a realizzarla. Spoiler: alla fine ce l’ha fatta. Ma lasciamo a lui raccontarci com’è andata.
La Jeroboam è stata decisamente impegnativa, devo ammetterlo. Per prima cosa, abbiamo chiesto a Maurizio se potessimo anticipare la partenza al Venerdì pomeriggio, perché partendo sabato mattina sarebbe stato praticamente impossibile arrivare in tempo per la partenza della Maratona (le 6.30 di Domenica, a 2 ore di macchina dall’arrivo di Jeroboam).
Risposta positiva e subito a cercare gregari per portarla a casa un po’ più agevolmente. Fede Bassis risponde presente e ci si trova a Tesero, Val di Fiemme. Ho tutto quel che serve per entrambi gli eventi, ma ovviamente è tutto nella stessa borsa. Finisce che mi tocca ribaltarla sul prato e organizzare il setup per il primo appuntamento.

Si parte.
Ruote da 650b, gomme Pirelli Cinturato H da 45 mm e un paio di borse, con il necessario per sopravvivere alla notte senza l’idea di fermarsi troppo, o comunque di trovare un posto coperto per dormire. Quindi niente sacco a pelo e compagnia: si viaggia piuttosto leggeri.
Ore 14.30 e si parte. Facciamo grandi calcoli e prevediamo di fare almeno 120-140 km prima della notte. Capiamo però subito che le nostre proiezioni sono quantomeno ottimistiche, perché la traccia è davvero esigente. Tanto esigente quanto bella, perchè il Passo Rolle, la Val Venegia e l’Alpe Lusia sono bellissime, ma richiedono decisamente più tempo di quello che pensavamo. Così come lo richiede la salita al Gardeccia: letteralmente una pista da sci da risalire che ci impegna fino al tramonto.
Va a finire insomma che alle 10 siamo al km 80-85 e decidiamo di mangiare al rifugio Gardeccia, dormire un po’ e partire presto. Sveglia alle 2.30 e alle 3 si riparte verso il fondo valle, per poi risalire la Val Duron. Ci godiamo un alba in cima alla salita, insieme a un gruppo di cavalli e nessun altro a vista d’occhio. Tutta la fatica vale un momento come questo.




Inutile poi continuare la cronaca del giorno successivo. Basti sapere che alla fine, comunque, a 9K di dislivello e a 300 km bisogna arrivarci. E tra qualche sentiero un po’ disastrato e qualche tratto da camminare vediamo l’arrivo alle 10 di sera, dopo almeno un paio d’ore buone sotto l’acqua. Tutto bellissimo, ma un po’ più impegnativo del previsto. Ed è decisamente più tardi di quanto avessi previsto per riportarmi in Alta Badia e dormire qualche ora prima della Maratona.
Si prende il van alle 11.30 dopo un piatto di pasta e un cambio di setup volante. Ruote Fulcrum Wind 40, via tutte le borse e la bici è pronta per la Maratona. Sporca, ma pronta.
Riesco ad andare a dormire alle 2.30 e la sveglia suona alle 4.30. Morbidissimo. A colazione faccio un po’ fatica a mangiare, mi vesto e vado in griglia. Sono decisamente un cadavere e c’è chi mi guarda un po’ strano. Anche perché sono lì in griglia con una bici sporca di fango.
Si parte e capisco subito che il problema della giornata di oggi non sarà tanto la bici – quella va alla grande e nonostante lo sporco è ancora bella fresca – ma le mie gambe. Ovvio che sia così, ma proprio non girano. Soprattutto all’inizio è una tragedia, in particolare dal punto di vista mentale. Mi superano tanti amici, ma mi supera anche un sacco di gente che non sono abituato a vedere andare forte. Dove forte è relativo a quanto piano vado io, in questo caso.

Il giro dei quattro passi è abbastanza traumatico e quando transito all’arrivo la tentazione di fermarmi è abbastanza grande, ma ho accettato la sfida e non mi posso tirare indietro. Stessa scena al bivio tra il medio e il lungo, anche perché conosco bene il Giau e so che sarà un’ora interessante…
Come sempre, comunque, la cima arriva. Prima o dopo arriva. Di buono, in questa Maratona, ci sono tante cose. Per la prima volta ad esempio mi godo dei grandi ristori come si deve, poi mi guardo una Maratona diversa, fatta di persone per cui la sfida non è andare forte o piano, ma arrivare in cima a una salita dopo l’altra e poi all’arrivo. Mi ricorda un po’ la mia prima Maratona: andavo in bici da sei mesi e chiuderla era un obiettivo che sembrava irraggiungibile.
La sensazione di incertezza e dubbio riguardo alla possibilità di fallire è quella che più mi piace e quella che mi porta a fare un certo viaggio o un certo evento. Oggi, con una Jeroboam alle spalle, mi trovo in mezzo a chi sta vivendo questa sensazione e mi piace guardarli, fare quattro chiacchiere, condividere con loro questa fatica.
L’arrivo è un po’ una liberazione. Ho decisamente bisogno di dormire un po’ e bermi un paio di birre per riprendermi. La bici invece sta bene. Fosse per lei farebbe un altro giro. Sia della Maratona che della Jeroboam. Le mie gambe, invece, per questo weekend ne hanno abbastanza.